di MARCELLO COMETTI


“Il dolore fisico è un concetto molto vasto, ma nella maggior parte
dei casi la richiesta che ci perviene è legata al dolore. Noi possiamo
insistere sinchè vogliamo sul concetto di shiatsu come portatore di
benessere, ma la richiesta dominante è quello dello shiatsu-terapia.
Il benessere viene dopo, viene percepito in un secondo momento.
La vera notizia, clamorosa, è… che lo shiatsu funziona!!”.

Daniele Giorcelli – torinese, 56 anni il prossimo 20 luglio, uno dei fondatori della federazione nazionale Scuole di Shiatsu, autore del libro “Gengo Shiatsu, il linguaggio della pressione” – conosce il dolore, sa come affrontarlo nella pratica quotidiana e sa benissimo che nella grande maggioranza dei casi è proprio un “dolore” ad avvicinare per la prima volta un utente al mondo shiatsu.
Intitolando “Salve, sono Daniele, risolvo problemi” la sua seguitissima relazione teorico-pratica al XXX Convegno nazionale di Montesilvano, il 12 aprile scorso, Giorcelli non ha solo voluto richiamarsi con una ghiotta citazione cinefila al Mr.Wolf di Quentin Tarantino in “Pulp fiction”, ma ha anche circoscritto con nettezza la “mission” dell’operatore-shiatsu, appunto un risolutore, nel senso più ampio del termine, dei problemi di chi gli siede
difronte.

“Noi – dice Giorcelli – dobbiamo ricordare sempre che siamo esseri multidimensionali, legati al binomio mente-corpo in un meccanismo in cui il corpo fisico è il terminale di emozioni, di stati d’animo, di percezioni sensoriali non fisiche. Questa gamma variegata di percezioni individuali ci dice che il dolore può essere vissuto in molti modi, e che lo stesso vale per la individuale sopportazione del dolore: in genere se c’è una forte consapevolezza corporea l’asticella della sopportazione sale, è alta, e l’operatore nel suo agire non incontra troppi divieti o paletti”.
Un dolore multidimensionale, dunque, multistrutturato. Un dolore che diviene anche metafora e narrazione del viaggio umano di ognuno di noi, come anche ricordava il poeta e scrittore giapponese Kenji Miyazawa quando scriveva: “Noi dobbiamo abbracciare il dolore e bruciarlo come combustibile per il nostro viaggio”.

Ma all’operatore shiatsu preme andare alla radice del problema, sciogliere i nodi e, come Mr. Wolf, risolvere il problema.

“Nel nostro caso – dice Daniele – non è importante solo il “dove” si
annida il dolore, ma anche, direi soprattutto, il “come” noi andiamo a comprendere quel dolore e ad affrontarlo. Io personalmente parlo di tre modi diversi di lavorare e di concepire il trattamento: con lo shiatsu “ritmico” (l’operatore affronta i singoli punti uno di seguito all’altro, quasi seguisse un ritmo continuo), con lo shiatsu-corda (l’operatore cerca una connessione lineare fra due punti collegati), e con lo shiatsu “diapason”, che è quello che io utilizzo con maggior successo, laddove l’operatore cerca col contatto una frequenza di risonanza, andando a sintonizzarsi su quella frequenza e lavorando su di essa. E’ sempre una sfida, questa, perché può risultare complicato trovare il livello che fa vibrare il punto dolente, e richiede grande capacità di ascolto non tanto e non solo nella fase di “entrata” quanto soprattutto in quella di “uscita”. E se si coglie la risonanza giusta spesso la risposta del paziente non si ferma al livello fisico ma può dare anche risposte di tipo emozionale, sempre da leggere e cogliere con la massima attenzione. E’ da quelle risposte che si inizia a diradare la nebbia che noi stessi spargiamo nel tentativo istintivo di difenderci dal dolore”.

La via della guarigione, comunque, sta nella complessità dell’interazione operatore-utente, e nella profonda consapevolezza che non esiste un meccanismo on-off, accendi-spegni, ma un percorso di “riscrittura” degli equilibri messi in crisi. Dice Giorcelli: “Ovviamente dopo ogni trattamento è necessario dare tempo all’accoppiata mente-corpo per elaborare una risposta alle modificate condizioni del distretto interessato: la saggezza di quel meccanismo complesso ed integrato fa sì che esso cerchi continuamente di “aggiustare” e di ricalibrare il tutto alla ricerca di un nuovo equilibrio. Sicuramente il primo passo per guarire è prendere coscienza del problema, e non certo fare finta che il problema non esista. Da questo punto di vista l’operatore ha il compito fondamentale di riuscire a connettersi con il paziente, di entrare in sintonia e di guidarlo in questo processo che potremmo chiamare di cognizione del dolore. Senza esagerare, ovviamente, e senza inutili orpelli. Nel nostro caso dovremmo ricordarci sempre di una regola aurea che nel mondo anglosassone suona così: less is more. Ovvero: meno è di più, meno è meglio.

Insomma, l’essenziale è perfetto. E funziona sempre”.

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